Lunedì, otto e un quarto del mattino, gran movimento in ufficio. L’ispettore ci chiese di portare il traslatore alla centrale Telecom, entro mezzogiorno bisognava avere sotto controllo il telefono di una persona che ci avrebbe condotto all’arresto di un latitante molto particolare: «Fa parte della cosiddetta mafia dei colletti bianchi: ex assessore, ex direttore della camera di commercio, ex segretario dell’onorevole***. Si chiama Antonio Massana».Quelle intercettazioni ci portarono a scoprire cose impensabili, contatti tra mafiosi, uomini politici e membri della massoneria locale. Ma da quel momento, mi resi conto che la legge non era uguale per tutti. Le indagini andavano avanti con maggiore solerzia se attraverso le persone arrestate si colpiva un certo partito, e l’efficienza delle procedure era diversa a seconda della corrente politica a cui apparteneva il magistrato che guidava l’inchiesta. Per certi fascicoli si procedeva spediti, per altri si prendeva tempo. Troppo tempo. Quell’indagine rimbalzò tra le mani di almeno sei magistrati nell’arco di un anno. Ci ponevamo mille domande, cercavamo di capire perché le cose non andavano avanti. Per esempio, perché le riunioni con i magistrati venivano rimandate di continuo, per una scusa o per un’altra. Il capo ci ripeteva: «Ma cosa devo fare? Pensate che possa andare dal magistrato e dirgli: ritengo che il suo continuo sottrarsi sia pretestuoso, lei prende tempo perché l’indagine coinvolge gente della sua corrente politica, sospetto che lei sia membro della stessa loggia massonica degli indagati? Ragazzi, ci muoviamo su un campo minato. Il questore che non mi cercava mai ora mi chiama sei volte al giorno, mi chiede di essere cauto, di non avere fretta, di non correre troppo, di tenere gli uomini a freno, di non prendere iniziative personali, perché ci bruciamo tutti la carriera. Ieri gli ho risposto che non mi importa niente della carriera, che voglio solo fare il mio lavoro, che mi sono rotto di sbattere in prima pagina i soliti mafiosi del cazzo e quei poveracci che rubano per portare un pezzo di pane a casa, e intanto i nomi eccellenti stanno fuori». Lo lasciammo sfogare, poi l’ispettore disse: «Dottore, è ora che qualche politico finisca in prima pagina, e pure qualche magistrato, se è il caso. Lo ha detto lei che i tempi stanno cambiando, no? E facciamoli cambiare». «Calma ragazzi, non alziamo la voce, qua anche i muri hanno orecchie.» «Ma dottore, lei è sempre stato uno di noi, che le è successo?» «Io sono con voi, ma la cosa è grossa, qui se si scuote troppo l’albero cade il governo.» «E che ce ne fotte a noi? Se ne fa un altro, di governo.» «Dobbiamo trovare prove.» «Noi questo vogliamo, ma pare che ogni richiesta ha bisogno del lasciapassare di tutti, questore, prefetto, magistrato, procuratore. E chissà quanta altra gente c’è dietro che non conosciamo e che tira il freno.» «Andiamo avanti senza fare casino, con astuzia. Facciamo credere che aspettiamo le loro direttive e intanto continuiamo i nostri accertamenti. Invece di metterli man mano al corrente di quello che scopriamo, facciamo una informativa riepilogativa con tutti i dati emersi. Li mettiamo davanti al fatto compiuto.» «Va bene dottore, però che schifo, sarebbe da dare tutto in mano alla stampa.» «Ma quale stampa, Giacomino? Qui sono coinvolti quasi tutti i partiti, chi sarebbe disposto a scrivere certe cose? E sapete come finisce? Per prima cosa ci tolgono l’indagine, poi ci isolano trasferendoci tutti in uffici diversi, e alla prima cazzata ci massacrano uno a uno.» Per fortuna l’indagine passò al magistrato che avevamo contattato ai tempi del “comitato”. Si chiamava Lo Curro. Eravamo tutti soddisfatti, se l’avevano passata a lui significava che in procura non erano poi tutti così prudenti. Quello non guardava in faccia nessuno, e lo sapevano tutti. Ogni giorno le intercettazioni ci regalavano qualcosa. Una delle cose più inquietanti a cui le informazioni portarono fu il pedinamento a Roma del braccio destro di un politico di primo piano. Pedinammo la sua scorta, si accorsero di noi, l’ultima auto rallentò per controllarci. Mostrammo paletta e tesserino. «Come mai ci venite dietro?» chiese il caposcorta. «Dietro a voi? Stiamo solo facendo la stessa strada.» Ci salutammo e se ne andarono. Il pedinamento terminò in via dei Fori Imperiali. Il personaggio doveva incontrarsi con un uomo che era cugino di uno dei più noti latitanti siciliani. Il politico fu pedinato di nuovo tre giorni dopo. In compagnia del suo autista e senza scorta andò a Ravenna, in via Adige numero 11. In quell’appartamento abitava il pentito che lo aveva accusato di collusione con la mafia. Furono fatte foto e filmato. Di questo materiale non si seppe più nulla. Nel corso delle intercettazioni emersero contatti tra mafiosi e altri esponenti del mondo politico nazionale, consiglieri regionali, segretari di partito, dirigenti di aziende, noti industriali, capi ufficio di comuni e prefetture ma anche semplici impiegati, gente messa nei posti chiave, magari con il potere di ritardare l’invio di un fascicolo. Spesso, le persone non si conoscevano tra di loro. Erano amici degli amici. Un insieme di persone messe nei posti giusti, scollegate e sconosciute tra di loro, ma tutte al servizio di un progetto unitario. Un amico chiedeva una cortesia a un altro amico per favorire un terzo che a sua volta doveva favorire un quarto, fino ad arrivare alla persona che usufruiva del beneficio richiesto. Una catena di Sant’Antonio di raccomandazioni, e ogni anello ne ricavava un profitto. Il magistrato esultava: «Finalmente cominciamo a scoprire gli altarini». Noi agenti avevamo la sensazione di toccare finalmente la nuova mafia, quella che mai nessuno aveva voluto vedere, tantomeno combattere. Era troppo bello per essere vero. E infatti non era vero. Dopo neanche venti giorni cominciarono le prime liti del magistrato con i suoi colleghi e il procuratore. Non ci permettevano di mettere sotto controllo i telefoni di persone potentissime. I colleghi di Lo Curro lo accusavano di protagonismo, il procuratore decise di affiancargli un altropm, evidentemente il suo incarico era quello di riferirgli tutto. Ci lasciava lavorare ma voleva sapere ogni cosa e leggere ogni riga. L’indagine proseguiva. Riuscimmo a scattare foto importantissime, uomini politici e mafiosi in amichevole conversazione, ad accertare strani intrecci tra ministri di partiti di versi che concordavano la spartizione dei finanziamenti per il Mezzogiorno. Una catena di riunioni, di strategie investigative, di giorni e giorni passati a fare pedinamenti. Spesso ci toccava usare i nostri soldi perché non c’era il tempo di passare in ufficio a prendere l’anticipo di missione. Giorni e giorni lontani da casa: Milano, Napoli, Catania, Roma, un panino al volo quando c’era tempo. Sul più bello qualcuno ricominciò a tirare il freno a mano, e questa volta tirò più forte. La macchina investigativa si fermò. Quintali di carte scritte, centinaia di bobine telefoniche, un mare di soldi spesi per microspie, intercettazioni, spostamento di personale, tutto inutile. Lo Curro passò definitivamente al ruolo civile e poi chiese di essere trasferito per incompatibilità ambientale. Ci ritrovammo sbandati e soli. Stranamente alcuni di noi, dopo tanti anni di attesa, vennero improvvisamente accontentati nelle loro richieste di trasferimento. Al nostro capo diedero una promozione: vicario in una questura del centro Italia. Ma chi volevano prendere per il culo? Veramente pensavano che fossimo così stupidi da non capire? Nonostante la delusione continuammo disciplinatamente il nostro solito lavoro di routine, quello che finisce sui giornali e che fa dire che lo stato esiste, che non abbassa mai la guardia. Ma l’unico stato che non abbassa mai la guardia siamo noi, che gli facciamo fare bella figura rischiando ogni giorno la pelle, che stiamo sulla strada all’acqua e al vento e non sentiamo la fame e la sete, che non vediamo crescere i nostri figli. Noi, quelli che nessuno conosce, quelli che tutti i potenti vogliono, ma ben lontani dal loro sedere. Dopo tre mesi ci comunicarono che, dalle rivelazioni di un pentito, risultava in preparazione un attentato alla nostra sezione. La cosa non ci impensierì. «Se viene, viene» disse qualcuno «vuol dire che era destino.» Strana gente, i poliziotti. Proprio a causa del presunto attentato la sezione venne smembrata completamente. Parecchi agenti finirono alla Criminalpol e in altre sezioni della squadra mobile. Dei diciotto che eravamo, rimanemmo in sette. Arrivò in sezione gente nuova. A noi non restava che farci domande: «Quel pentito esiste veramente? Chi è? A quale magistrato ha fatto la dichiarazione? Veramente c’era un attentato nell’aria, o è stata solo una scusa per dividerci?». Girava voce che avevamo preso troppe iniziative personali, che non avevamo seguito le direttive impartite a tutti i livelli. La verità è che per qualcuno eravamo diventati pericolosi. Sapevamo troppe cose importanti di gente troppo importante. Era sempre la solita tarantella. Quando si volevano fare le cose per bene si assegnavano le indagini a una certa sezione, quando si voleva dare l’apparenza di fare ma senza veramente approfondire, si assegnavano a sezioni più addomesticabili, dove non fanno troppe domande e alla fine attaccano l’asino dove vuole il padrone.
Gianni Palagonia
Ps. Capitolo intero de IL SILENZIO, dal titolo GLI INTOCCABILI (da pag. 303 a pag. 308)